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Gennaio 2017

Banche, ancora in salita la strada per il credito alle imprese

di Matteo Prioschi, giornalista de Il Sole 24 Ore

I prestiti alle imprese continuano a soffrire, i tassi di interesse sono ancora favorevoli ma l’accesso al credito è sempre più difficile, e tornano a calare le consistenze dei finanziamenti. Nel frattempo si stabilizzano le sofferenze delle banche italiane, mentre proseguono le manovre dello Stato a supporto del settore.
 
Ancora segnali di difficoltà per il credito alle imprese. I dati aggiornati a novembre, contenuti nel supplemento di gennaio al bollettino statistico pubblicato dalla Banca d’Italia segnalano valori altalenanti nel corso del 2016 ma tendenzialmente in calo. Le consistenze dei prestiti alle società non finanziarie, infatti, nel mese di novembre ammontavano a 785 miliardi di euro. All’inizio dell’anno sfioravano i 792 miliardi, poi si è scesi a 783 in aprile, per poi risalire a oltre 791 in giugno e poi ancora giù a 783 in ottobre.
Un anno prima, cioè nell’ottobre 2015, i prestiti alle imprese valevano 794 miliardi di euro; a fine 2014 erano 807 miliardi e un anno prima 814 miliardi.
 
L’analisi per classi di durata segnala in calo i finanziamenti fino a 1 anno, passati da un valore complessivo di 288 miliardi del novembre 2016 a 267 miliardi un anno dopo, così come sono calati da 367 a 357 miliardi quelli oltre i 5 anni. In controtendenza quelli con durata compresa tra 1 e 5 anni, cresciuti da 148 a 160 miliardi nei dodici mesi conclusi a novembre 2016. Ciò a fronte di segnali che indicano, invece, una crescita della richiesta nell’ultimo anno di finanziamenti da parte delle aziende, ma a cui non fa riscontro la disponibilità degli istituti di credito, anche per le realtà più piccole. E a conferma della stretta sul fronte creditizio, c’è il successo ottenuto dal Fondo di garanzie per le Pmi, che dal 2010 a oggi ha assistito oltre 620mila operazioni.
 
In compenso, chi riesce a ottenere un prestito può contare su tassi di interesse ancora a livelli bassi. Il valore medio per le nuove operazioni a novembre 2016 era pari a 1,56%, poco superiore al minimo di 1,50% toccato due mesi prima e ben lontano dal 3,45% applicato nel 2013 o sensibilmente inferiore al 2,57% dell’anno successivo.
Una buona notizia in questo quadro complesso è che la crescita delle sofferenze delle banche italiane, cioè dei crediti deteriorati, sembra essersi fermata. Tuttavia la loro incidenza è ancora alta, dato che rappresenta il 16,4% del totale dei prestiti, a fronte di una media europea del 5,4 per cento. Un valore, peraltro, che “nasconde” differenze sensibili in modo inversamente proporzionale alle dimensioni degli istituti di credito: quelli più grandi hanno una media di sofferenze del 4%, quelli piccoli superano il 23 per cento.
 
Il processo di smaltimento di questi “fardelli” che pesano sui bilanci delle banche richiede però tempo, anche perché il mercato su cui possono essere venduti è poco efficiente e spesso compratori e banche non trovano l’accordo sul prezzo (ritenuto troppo basso da quest’ultime). L’ulteriore buona notizia arriverà quando le sofferenze inizieranno a calare in modo consistente, così si libereranno risorse oggi utilizzate per coprire questi buchi, dato che le normative richiedono una patrimonializzazione correlata al rischio che si corre sul fronte degli impieghi. Così, con bilanci meno pesanti, i prestiti potrebbero ricominciare a crescere, a vantaggio del sistema produttivo.
 
Questi dati che testimoniano una situazione ancora difficile si inseriscono in un contesto caratterizzato dall’intervento dello Stato, a fine dicembre, con la creazione del fondo salva banche. Con una dotazione di 20 miliardi di euro, sarà utilizzato per supportare le banche in situazione critica che hanno bisogno di fondi per ricapitalizzare attraverso la soluzione del “burden sharing”, cioè il salvataggio tramite l’intervento pubblico accompagnato da quello, loro malgrado, degli investitori privati che hanno in portafoglio obbligazioni dell’istituto di credito che richiede aiuto. Questa nuova misura segue la creazione del fondo Atlante, già intervenuto in più di un caso, entrando nel capitale di altre banche o acquistando i crediti deteriorati per ripulirne i bilanci e consentire così la prosecuzione dell’attività. Il percorso, tuttavia, non è rapido, come dimostrano le vicende relative ai primi istituti andati in difficoltà e che, a distanza di un paio di anni, non hanno concluso l’iter che, per quanto riguarda le realtà più piccole, prevede, dopo la pulizia dei bilanci e la ricapitalizzazione, l’acquisto da parte di un soggetto di maggiori dimensioni.
 
In compenso, a livello di sistema, il declassamento del debito di Stato italiano da parte dell’agenzia di rating canadese Dbrs avvenuto la settimana scorsa non dovrebbe determinare scossoni sensibili, almeno per gli istituti di credito medio-grandi. Il passaggio da “A-low” a “BBB high” determina, per le banche, un costo maggiore del denaro preso in prestito dalla Bce dando come garanzia titoli di Stato italiani. In sostanza per avere lo stesso importo si dovranno utilizzare più titoli di Stato, oppure a parità di titoli si avranno meno soldi. Tuttavia, secondo gli analisti, l’utilizzo ridotto di questa forma di “pegno” che viene fatta dagli istituti di credito, nonché l’elevata quantità detenuta in portafoglio non dovrebbero determinare un aumento di costi effettivi con possibili conseguenze nei confronti della clientela sotto forma di tasso di interesse applicato ai prestiti.
 





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