Decreto dignità, ecco cosa cambia nei contratti a termine e di somministrazione
Matteo Prioschi, giornalista de Il Sole 24 Ore
Riduzione della durata, ritorno delle causali e possibilità di proroga fino a un massimo di 4 volte sono alcune delle novità introdotte dal provvedimento che è all'esame del Parlamento per la sua conversione in legge.
Stretta sui contratti a termine e sulla somministrazione. Queste le conseguenze più rilevanti dell’entrata in vigore, avvenuta il 14 luglio, del decreto legge “dignità” (numero 87/2018) approvato dal Governo per contrastare il lavoro precario. Un provvedimento che ha suscitato dubbi e critiche perché rende difficile l’utilizzo di contratti flessibili necessari alle aziende per far fronte a flussi di lavoro imprevedibili o concentrati in determinati periodi dell’anno.
La durata massima del contratto a tempo determinato era di 36 mesi fino alla metà di questo mese. Ora è stata ridotta a 12 mesi, con la possibilità di salire a 24 in presenza di determinate condizioni: è il ritorno delle “causali” che erano state abolite quattro anni fa. In sostanza, se il contratto a termine non supera i 12 mesi di durata, il datore di lavoro non deve specificare perché assume una persona. È consentito sottoscrivere un contratto di durata oltre i 12 mesi solo se si verifica una delle due seguenti condizioni:
Inoltre la presenza di queste condizioni è richiesta per ogni rinnovo del contratto con lo stesso dipendente (ad esempio anche se a un primo contratto di 6 mesi ne segue un altro di 6 mesi) e per le proroghe (massimo 4) che estendono la durata originaria oltre i 12 mesi (per esempio se da 6 mesi si passa a 14, mentre non serve alcuna motivazione se da 6 si passa a 11).
In ogni caso la durata massima del contratto o di una serie di rinnovi e di proroghe non può superare i 24 mesi, perché in tal caso scatta la conversione a tempo indeterminato. Inoltre a ogni rinnovo il contributo aggiuntivo che grava sui rapporti a termine, pari all’1,40% della retribuzione, viene aumentato dello 0,50%. La nuova norma consente ancora ai contratti collettivi di prevedere una durata massima oltre i 24 mesi, ma oltre i 12 vanno comunque indicate le “causali”. Sono invece escluse dalle causali le attività stagionali individuate dal decreto del presidente della Repubblica 1525/1963 e dai contratti collettivi.
La causali erano state abolite, sostituite da limiti quantitativi all’impiego di personale a tempo, perché si erano dimostrate fonte di un ampio contenzioso giudiziario tra lavoratori e aziende, con i primi che impugnavano il contratto alla scadenza nella speranza di ottenere dal giudice la conversione a tempo indeterminato. Le due causali introdotte dal decreto dignità sono ancora più vincolanti di quelle del passato. Ad esempio, il picco di attività che si può registrare in autunno e in primavera per il cambio gomme termiche non può essere definito “non programmabile” e nemmeno estraneo all’attività ordinaria. Tutte queste novità si applicano anche al lavoro in somministrazione che quindi diventa anch’esso di difficile gestione.
Meno rilevante è l’aumento dell’indennità, pari a due mensilità per ogni anno di servizio (una mensilità per le imprese fino a 15 dipendenti), dovuta al lavoratore assunto a tempo indeterminato a tutele crescenti se il licenziamento viene ritenuto illegittimo dal giudice. Per le imprese con più di 15 addetti l’indennizzo minimo passa da 4 a 6 mensilità retributive e quello massimo da 24 a 36 mensilità. Per le aziende più piccole il minimo sale da 2 a 3 mensilità mentre resta invariato il massimo pari a 6 mensilità.
Infine dovranno essere meglio chiarite le disposizioni introdotte per contrastare la delocalizzazione all’estero e tutelare il mantenimento dei livelli occupazionali da parte di imprese che hanno beneficiato di aiuti di Stato. Innanzitutto la definizione di aiuti di Stato è molto ampia e potrebbe includere prestiti, esenzioni fiscali, riduzione dei contributi, ma anche la cassa integrazione. Secondo quando previsto nell’articolo 5 del decreto, se un’impresa che ha ricevuto un aiuto, nei cinque anni successivi sposta all’estero l’attività (non è chiaro se in parte o tutta), deve restituire l’agevolazione con gli interessi e pagare una sanzione variabile da due a quattro volte l’aiuto fruito. Se l’agevolazione prevede la presenza in una regione o area territoriale specifica, va restituita anche nel caso il trasferimento dell’attività sia all’interno del territorio nazionale.
L’articolo 6 prevede invece una penalizzazione per i datori di lavoro che ricevono un incentivo legato alla valutazione dell’impatto occupazionale, e nei 5 anni successivi riducono il numero di dipendenti. Anche in questo caso il legislatore deve chiarire quali sono gli incentivi a cui si riferisce. Inoltre la norma consente la riduzione del personale per “giustificato motivo oggettivo”: si tratta dei licenziamenti per motivi economici in cui rientrano però anche quelli per maggior profitto (come ammesso dalla giurisprudenza). Dunque la norma sembrerebbe sanzionare l’azienda per riduzione del personale dovuta solo a licenziamenti disciplinari.
Il decreto legge 87/2018 è in questi giorni all’esame del Parlamento per la sua conversione in legge e in occasione di questo passaggio potrebbero essere introdotte delle modifiche. Tra le più probabili c’è la restituzione al datore di lavoro dello 0,5% aggiuntivo pagato in occasione di un rinnovo del contratto a termine se poi lo stesso viene trasformato a tempo indeterminato. Altra modifica potrebbe riguardare la somministrazione con l’obbligo di indicare la causale non riferita all’agenzia per il lavoro ma all’azienda dove viene impiegato il lavoratore. Incerta la reintroduzione dei “voucher” (comunque limitati ad agricoltura, turismo ed enti locali) aboliti l’anno scorso per retribuire il lavoro occasionale, mentre potrebbe essere reso meno complicato il contratto di prestazione occasionale “Presto” che li ha sostituiti. Dovrebbe anche essere previsto un periodo transitorio, dato che al momento tutte le novità sono già in vigore e impattano non solo sui contratti nuovi sottoscritti dal 14 luglio, ma anche su rinnovi e proroghe di quelli esistenti. Il periodo transitorio dovrebbe posticipare l’effetto del decreto alla fine di ottobre.
La durata massima del contratto a tempo determinato era di 36 mesi fino alla metà di questo mese. Ora è stata ridotta a 12 mesi, con la possibilità di salire a 24 in presenza di determinate condizioni: è il ritorno delle “causali” che erano state abolite quattro anni fa. In sostanza, se il contratto a termine non supera i 12 mesi di durata, il datore di lavoro non deve specificare perché assume una persona. È consentito sottoscrivere un contratto di durata oltre i 12 mesi solo se si verifica una delle due seguenti condizioni:
- esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori;
- esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Inoltre la presenza di queste condizioni è richiesta per ogni rinnovo del contratto con lo stesso dipendente (ad esempio anche se a un primo contratto di 6 mesi ne segue un altro di 6 mesi) e per le proroghe (massimo 4) che estendono la durata originaria oltre i 12 mesi (per esempio se da 6 mesi si passa a 14, mentre non serve alcuna motivazione se da 6 si passa a 11).
In ogni caso la durata massima del contratto o di una serie di rinnovi e di proroghe non può superare i 24 mesi, perché in tal caso scatta la conversione a tempo indeterminato. Inoltre a ogni rinnovo il contributo aggiuntivo che grava sui rapporti a termine, pari all’1,40% della retribuzione, viene aumentato dello 0,50%. La nuova norma consente ancora ai contratti collettivi di prevedere una durata massima oltre i 24 mesi, ma oltre i 12 vanno comunque indicate le “causali”. Sono invece escluse dalle causali le attività stagionali individuate dal decreto del presidente della Repubblica 1525/1963 e dai contratti collettivi.
La causali erano state abolite, sostituite da limiti quantitativi all’impiego di personale a tempo, perché si erano dimostrate fonte di un ampio contenzioso giudiziario tra lavoratori e aziende, con i primi che impugnavano il contratto alla scadenza nella speranza di ottenere dal giudice la conversione a tempo indeterminato. Le due causali introdotte dal decreto dignità sono ancora più vincolanti di quelle del passato. Ad esempio, il picco di attività che si può registrare in autunno e in primavera per il cambio gomme termiche non può essere definito “non programmabile” e nemmeno estraneo all’attività ordinaria. Tutte queste novità si applicano anche al lavoro in somministrazione che quindi diventa anch’esso di difficile gestione.
Meno rilevante è l’aumento dell’indennità, pari a due mensilità per ogni anno di servizio (una mensilità per le imprese fino a 15 dipendenti), dovuta al lavoratore assunto a tempo indeterminato a tutele crescenti se il licenziamento viene ritenuto illegittimo dal giudice. Per le imprese con più di 15 addetti l’indennizzo minimo passa da 4 a 6 mensilità retributive e quello massimo da 24 a 36 mensilità. Per le aziende più piccole il minimo sale da 2 a 3 mensilità mentre resta invariato il massimo pari a 6 mensilità.
Infine dovranno essere meglio chiarite le disposizioni introdotte per contrastare la delocalizzazione all’estero e tutelare il mantenimento dei livelli occupazionali da parte di imprese che hanno beneficiato di aiuti di Stato. Innanzitutto la definizione di aiuti di Stato è molto ampia e potrebbe includere prestiti, esenzioni fiscali, riduzione dei contributi, ma anche la cassa integrazione. Secondo quando previsto nell’articolo 5 del decreto, se un’impresa che ha ricevuto un aiuto, nei cinque anni successivi sposta all’estero l’attività (non è chiaro se in parte o tutta), deve restituire l’agevolazione con gli interessi e pagare una sanzione variabile da due a quattro volte l’aiuto fruito. Se l’agevolazione prevede la presenza in una regione o area territoriale specifica, va restituita anche nel caso il trasferimento dell’attività sia all’interno del territorio nazionale.
L’articolo 6 prevede invece una penalizzazione per i datori di lavoro che ricevono un incentivo legato alla valutazione dell’impatto occupazionale, e nei 5 anni successivi riducono il numero di dipendenti. Anche in questo caso il legislatore deve chiarire quali sono gli incentivi a cui si riferisce. Inoltre la norma consente la riduzione del personale per “giustificato motivo oggettivo”: si tratta dei licenziamenti per motivi economici in cui rientrano però anche quelli per maggior profitto (come ammesso dalla giurisprudenza). Dunque la norma sembrerebbe sanzionare l’azienda per riduzione del personale dovuta solo a licenziamenti disciplinari.
Il decreto legge 87/2018 è in questi giorni all’esame del Parlamento per la sua conversione in legge e in occasione di questo passaggio potrebbero essere introdotte delle modifiche. Tra le più probabili c’è la restituzione al datore di lavoro dello 0,5% aggiuntivo pagato in occasione di un rinnovo del contratto a termine se poi lo stesso viene trasformato a tempo indeterminato. Altra modifica potrebbe riguardare la somministrazione con l’obbligo di indicare la causale non riferita all’agenzia per il lavoro ma all’azienda dove viene impiegato il lavoratore. Incerta la reintroduzione dei “voucher” (comunque limitati ad agricoltura, turismo ed enti locali) aboliti l’anno scorso per retribuire il lavoro occasionale, mentre potrebbe essere reso meno complicato il contratto di prestazione occasionale “Presto” che li ha sostituiti. Dovrebbe anche essere previsto un periodo transitorio, dato che al momento tutte le novità sono già in vigore e impattano non solo sui contratti nuovi sottoscritti dal 14 luglio, ma anche su rinnovi e proroghe di quelli esistenti. Il periodo transitorio dovrebbe posticipare l’effetto del decreto alla fine di ottobre.