Trump, il protezionismo economico e i rischi per il settore automotive
di Dino Collazzo
Dazi doganali, revisione degli accordi commerciali internazionali e ritorno ai combustibili fossili. L’America secondo Trump è un’incognita per il settore auto.
Dazi sulle merci importate e revisione degli accordi internazionali sul commercio. Il neo eletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sceglie la strada della “sglobalizzazione” e punta diritto al protezionismo in campo economico. E una delle prime vittime potrebbe essere il settore dell’automotive. Infatti, a turbare i sonni dei costruttori è l’ipotesi di tassazione al 35% su veicoli importati da paesi in cui è stata delocalizzata la produzione: primo tra tutti il Messico. È a sud del Rio Grande che sia i tre big di Detroit (General motors, Ford e Fiat Chrysler) che i costruttori tedeschi e giapponesi hanno spostato una parte dei loro stabilimenti presenti negli Usa. Se e come, però, la “Trumponomics” influirà sui margini delle imprese e, più in generale, sulla storia contemporanea lo si saprà solo quando gli eventi si saranno del tutto dispiegati. Alla base, per ora, di questa possibile chiusura al mondo – in attesa che Trump entri alla Casa Bianca e scopra le carte della sua politica economica – ci sono solo dichiarazioni, tweet e appelli che il tycoon ha rilasciato sia in campagna elettorale che dopo le elezioni di novembre, tesi a tutelare la manifattura interna e quei lavoratori che sono la base del suo successo elettorale.
Il tema che più di tutti tiene banco riguarda la possibile applicazione di una tassazione al 35% alle imprese che importano beni, un tempo realizzati negli Stati Uniti, all’interno dei confini nazionali. A subirne gli effetti negativi sarebbero proprio i costruttori di auto come il gruppo Volkswagen, Bmw, Daimler, Toyota, Nissan e le americane Gm, Ford e da ultimo Fca. Gruppi con diversi stabilimenti in Messico. Il rischio per loro, qualora questa misura dovesse passare, è di ritrovarsi con dei margini in caduta libera. In pochi però credono che Trump, nel medio periodo, sia pronto a introdurre dei dazi, anche perché una scelta di questo tipo avrebbe ripercussioni negative sulla stessa industria americana. Se si guarda al comparto dell’automotive – ma il ragionamento potrebbe estendersi anche a quei settori della new-economy che hanno la loro sede nella Silicon valley ma la catena produttiva e d’assemblaggio in Cina – dei 79 miliardi di dollari che il ramo automobile messicano ha esportato, nei primi 9 mesi del 2016, negli Usa, oltre la metà è costituito da componentistica destinata alle fabbriche a stelle e strisce. In sostanza ponendo delle barriere al libero scambio si ridurrebbero le importazioni. Con effetti negativi che si ripercuoterebbero sia sull’export – altri Stati (Cina) potrebbero scegliere di rendere oneroso l’ingresso di merci Usa nel proprio territorio dando così inizio a una “guerra commerciale” – sia sui posti di lavoro.
A sostegno dell’ipotesi che Trump non intende fare sul serio su questo fronte è arrivata, qualche giorno fa, la nomina di Mary Barra, ceo di Gm, nel comitato di esperti che lo affiancherà sulle decisioni in materia di politica economica. Una decisione che fa il paio con la volontà dello stesso tycoon di rivedere, su sollecitazione della stessa Alliance of automobile manufacturers, il giro di vita imposto da Obama ai costruttori d’auto riguardo alla riduzione di emissioni. Trump, infatti, non ha mai fatto mistero del suo scetticismo riguardo al global warming e sulla necessità di voler ritornare all’uso dei combustibili fossili per rilanciare l’industria statunitense. Difficile dunque pensare che il nuovo inquilino della Casa Bianca sia pronto a brandire la tagliola dei dazi e a danneggiare le imprese dell’automotive presenti negli Stati Uniti, tra cui anche diverse società italiane che risultano esposte – secondo uno studio di Mediobanca – di oltre il 15% dell’ebitda all’economia americana: Fca 80%, Cnh Industrial 55%, Ferrari 45% e Brembo 30%. Resta invece da capire cosa farà Trump in merito a una serie d’investimenti ereditati dal suo predecessore sul fronte delle nuove tecnologie come la giuda autonoma e il potenziamento delle infrastrutture di ricarica elettrica. Ricette per una mobilità sostenibile su cui si muove il futuro dell’industria dell’automotive ma che con il nuovo corso americano rischiano di finire in soffitta. A meno che il 20 gennaio “the Donald” non stupisca di nuovo tutti così come ha fatto l’8 novembre.
Il tema che più di tutti tiene banco riguarda la possibile applicazione di una tassazione al 35% alle imprese che importano beni, un tempo realizzati negli Stati Uniti, all’interno dei confini nazionali. A subirne gli effetti negativi sarebbero proprio i costruttori di auto come il gruppo Volkswagen, Bmw, Daimler, Toyota, Nissan e le americane Gm, Ford e da ultimo Fca. Gruppi con diversi stabilimenti in Messico. Il rischio per loro, qualora questa misura dovesse passare, è di ritrovarsi con dei margini in caduta libera. In pochi però credono che Trump, nel medio periodo, sia pronto a introdurre dei dazi, anche perché una scelta di questo tipo avrebbe ripercussioni negative sulla stessa industria americana. Se si guarda al comparto dell’automotive – ma il ragionamento potrebbe estendersi anche a quei settori della new-economy che hanno la loro sede nella Silicon valley ma la catena produttiva e d’assemblaggio in Cina – dei 79 miliardi di dollari che il ramo automobile messicano ha esportato, nei primi 9 mesi del 2016, negli Usa, oltre la metà è costituito da componentistica destinata alle fabbriche a stelle e strisce. In sostanza ponendo delle barriere al libero scambio si ridurrebbero le importazioni. Con effetti negativi che si ripercuoterebbero sia sull’export – altri Stati (Cina) potrebbero scegliere di rendere oneroso l’ingresso di merci Usa nel proprio territorio dando così inizio a una “guerra commerciale” – sia sui posti di lavoro.
A sostegno dell’ipotesi che Trump non intende fare sul serio su questo fronte è arrivata, qualche giorno fa, la nomina di Mary Barra, ceo di Gm, nel comitato di esperti che lo affiancherà sulle decisioni in materia di politica economica. Una decisione che fa il paio con la volontà dello stesso tycoon di rivedere, su sollecitazione della stessa Alliance of automobile manufacturers, il giro di vita imposto da Obama ai costruttori d’auto riguardo alla riduzione di emissioni. Trump, infatti, non ha mai fatto mistero del suo scetticismo riguardo al global warming e sulla necessità di voler ritornare all’uso dei combustibili fossili per rilanciare l’industria statunitense. Difficile dunque pensare che il nuovo inquilino della Casa Bianca sia pronto a brandire la tagliola dei dazi e a danneggiare le imprese dell’automotive presenti negli Stati Uniti, tra cui anche diverse società italiane che risultano esposte – secondo uno studio di Mediobanca – di oltre il 15% dell’ebitda all’economia americana: Fca 80%, Cnh Industrial 55%, Ferrari 45% e Brembo 30%. Resta invece da capire cosa farà Trump in merito a una serie d’investimenti ereditati dal suo predecessore sul fronte delle nuove tecnologie come la giuda autonoma e il potenziamento delle infrastrutture di ricarica elettrica. Ricette per una mobilità sostenibile su cui si muove il futuro dell’industria dell’automotive ma che con il nuovo corso americano rischiano di finire in soffitta. A meno che il 20 gennaio “the Donald” non stupisca di nuovo tutti così come ha fatto l’8 novembre.