Robot e intelligenza artificiale, come cambierà il mondo del lavoro
di Dino Collazzo
Aziende sempre più automatizzate, algoritmi in grado di raccogliere ed elaborare dati in frazioni di secondo, internet delle cose e robotica: lo sviluppo tecnologico creerà lavoro o lo distruggerà? Oggi come ai tempi della prima rivoluzione industriale è questo il quesito su cui ci s’interroga. La risposta è nella capacità di governare i cambiamenti.
Dalla nuvola della prima macchina a vapore alla cloud computing nelle aziende. L’innovazione tecnologica ha segnato l’avvio della quarta rivoluzione industriale. Ma oggi come due secoli fa, tra i tanti interrogativi che ogni novità porta con sé ce n’è uno che suscita particolare interesse nell’opinione pubblica: lo sviluppo tecnologico crea lavoro o lo distrugge? Entrambe le risposte sono plausibili. E questo perché il cambiamento a cui si sta assistendo ha un elevato grado di innovazione. Il che porta a dividere il campo tra chi è convinto che il miglioramento delle infrastrutture digitali sia motivo di crescita, e di conseguenza di occupazione, e chi invece vede proprio nelle tecnologie digitali una causa dell’eventuale perdita di posti di lavoro. Cosa accadrà, è difficile dirlo.
Il futuro, infatti, non si prevede ma si costruisce. L’intelligenza artificiale, l’internet delle cose, l’automazione, la robotica, la realtà aumentata e i big data sono l’architrave su cui poggia lo sviluppo economico e sociale del millennio. Queste innovazioni modificheranno in maniera drastica sia i modelli produttivi che il lavoro. Ma il modo in cui lo faranno dipenderà da come le nuove tecnologie verranno adottate dalle aziende e interiorizzate dai lavoratori. È per questo motivo che per declinare il loro potenziale in chiave positiva servono azioni in grado di governare i cambiamenti in atto, come: investimenti nella formazione continua del personale, innalzamento degli standard d’istruzione, la garanzia di tutele lavorative adeguate, un welfare più solido e il reinvestimento dei profitti nell’economia reale. La parola chiave, per questa nuova fase dello sviluppo industriale, è: resilienza.
Fermo restando, come detto in precedenza, che nessuno può prevedere il futuro, l’analisi dei dati può però aiutare ad anticiparlo. E di conseguenza trovare il modo di reagire positivamente ai cambiamenti. Stando all’ultimo rapporto dell’istituto di ricerca McKinsey, A Future That Works: Automation, Employment and Productivity, la metà dell’attuale forza lavoro sarà impattata dall’automazione. L’indagine ha analizzato duemila attività lavorative e gli analisti hanno stabilito che oltre il 60% delle attuali occupazioni può raggiungere, già oggi, un 30% di automazione tecnologica. Le categorie che hanno un elevato potenziale in questo senso sono quelle legate alla raccolta dei dati, alla loro elaborazione e all’esecuzione di attività fisiche manuali o l’operatività dei macchinari impiegati in ambienti produttivi.
Nel settore del manufacturing ciò è già avvenuto. Basti pensare a come l’arrivo dell’automazione ha iniziato a sostituire l’uomo nello svolgimento di attività ripetitive, nella mobilità fisica e nella raccolta e analisi dei dati. È indubbio che alcuni lavori – secondo diversi analisti si tratterebbe del 10% – nel lungo periodo finiranno per essere sostituiti da una macchina o un robot. Ma è pur vero che la grande maggioranza dei lavori tenderà invece a evolvere, mentre altri nasceranno ex novo. La sfida sarà capire come e con quale velocità gli effetti di queste trasformazioni si riprodurranno nelle diverse economie. Il rischio concreto è che un incremento della disoccupazione si possa verificare più per l’assenza di un progresso tecnico all’interno delle imprese che per il suo contrario. La tensione innovativa tenderà a selezionare chi è capace di investire nello smart manufacturing da chi no. Con il risultato che chi non riuscirà a tenere il passo con gli investimenti in nuove tecnologie, formazione e lavoro, sarà destinato a finire fuori dal mercato.
Il futuro, infatti, non si prevede ma si costruisce. L’intelligenza artificiale, l’internet delle cose, l’automazione, la robotica, la realtà aumentata e i big data sono l’architrave su cui poggia lo sviluppo economico e sociale del millennio. Queste innovazioni modificheranno in maniera drastica sia i modelli produttivi che il lavoro. Ma il modo in cui lo faranno dipenderà da come le nuove tecnologie verranno adottate dalle aziende e interiorizzate dai lavoratori. È per questo motivo che per declinare il loro potenziale in chiave positiva servono azioni in grado di governare i cambiamenti in atto, come: investimenti nella formazione continua del personale, innalzamento degli standard d’istruzione, la garanzia di tutele lavorative adeguate, un welfare più solido e il reinvestimento dei profitti nell’economia reale. La parola chiave, per questa nuova fase dello sviluppo industriale, è: resilienza.
Fermo restando, come detto in precedenza, che nessuno può prevedere il futuro, l’analisi dei dati può però aiutare ad anticiparlo. E di conseguenza trovare il modo di reagire positivamente ai cambiamenti. Stando all’ultimo rapporto dell’istituto di ricerca McKinsey, A Future That Works: Automation, Employment and Productivity, la metà dell’attuale forza lavoro sarà impattata dall’automazione. L’indagine ha analizzato duemila attività lavorative e gli analisti hanno stabilito che oltre il 60% delle attuali occupazioni può raggiungere, già oggi, un 30% di automazione tecnologica. Le categorie che hanno un elevato potenziale in questo senso sono quelle legate alla raccolta dei dati, alla loro elaborazione e all’esecuzione di attività fisiche manuali o l’operatività dei macchinari impiegati in ambienti produttivi.
Nel settore del manufacturing ciò è già avvenuto. Basti pensare a come l’arrivo dell’automazione ha iniziato a sostituire l’uomo nello svolgimento di attività ripetitive, nella mobilità fisica e nella raccolta e analisi dei dati. È indubbio che alcuni lavori – secondo diversi analisti si tratterebbe del 10% – nel lungo periodo finiranno per essere sostituiti da una macchina o un robot. Ma è pur vero che la grande maggioranza dei lavori tenderà invece a evolvere, mentre altri nasceranno ex novo. La sfida sarà capire come e con quale velocità gli effetti di queste trasformazioni si riprodurranno nelle diverse economie. Il rischio concreto è che un incremento della disoccupazione si possa verificare più per l’assenza di un progresso tecnico all’interno delle imprese che per il suo contrario. La tensione innovativa tenderà a selezionare chi è capace di investire nello smart manufacturing da chi no. Con il risultato che chi non riuscirà a tenere il passo con gli investimenti in nuove tecnologie, formazione e lavoro, sarà destinato a finire fuori dal mercato.