Brexit, il muro dei dazi e i rischi per l’automotive
di Dino Collazzo
Per Giuseppe Barile, presidente del gruppo componenti di Anfia, l’uscita del Regno Unito dal mercato unico creerà qualche scossone al mercato. Per le imprese italiane del comparto automotive sul piatto ci sono 2,9 miliardi di euro di export. “Dire cosa succederà è ancora troppo prematuro. Di certo una cosa da evitare è che si torni alle regole del Wto dove dazi al 10% sulle autovetture e al 4,5% sui componenti sarebbero deleteri”.
Non bastano cinquanta chilometri di tunnel per tenere insieme Unione europea e Regno Unito. Con la lettera d’addio firmata da Theresa May qualche settimana fa, è partito il conto alla rovescia della Brexit. E l’incertezza su possibili turbolenze commerciali suscita qualche timore tra chi ha legato a doppio filo il propio business con Londra. La Gran Bretagna, infatti, recidendo quel cordone che fino a giugno scorso aveva unito le due sponde della manica, dice addio alla libera circolazione di persone e merci. Ma soprattutto ai vantaggi derivanti dal far parte di un mercato unico. In attesa di capire nei prossimi due anni che accordo verrà fuori dalla trattativa tra la Commissione europea e il Governo inglese, una cosa è chiara: l’effetto economico della Brexit è un tema chiave per le nostre imprese. In particolare per il comparto automotive, il cui export pesa per il 12,8% sul totale delle merci destinate al Regno Unito, per un valore di 2,9 miliardi di euro.
“In questa fase è difficile prevedere cosa accadrà. Per ora bisogna limitarsi a osservare – spiega Giuseppe Barile, presidente del gruppo componenti di Anfia –. Di certo il mercato non cambierà in maniera repentina l’ammontare complessivo del suo business, ma ciò non toglie che ci saranno degli scossoni e degli aggiustamenti i cui effetti però si avranno a partire dal prossimo ciclo di sviluppo di piattaforme vetture. Pensare che si stoppino degli investimenti già avviati o si rescindano accordi già stipulati mi sembra difficile”. I dati sull’interscambio commerciale del comparto automotive, elaborati da Anfia, descrivono un 2016 in ascesa con un saldo positivo per 643 milioni di euro. A pesare in maniera determinante è stata soprattutto la componentistica, il cui export ha generato 1,35 miliardi di euro di valore. Un risultato che ha portato il settore a chiudere l’anno con il saldo più alto in assoluto – 1 miliardo di euro e un più 9,8% rispetto al 2015 – tra tutti i partner commerciali dell’Italia. Questi numeri fanno del Regno Unito il quarto mercato di destinazione della componentistica italiana che invia Oltremanica: parti e accessori, freni, ruote, ponti con differenziale, assi portanti, sedili, pompe carburante, olio e refrigerante per motori e vetri.
Si tratta di prodotti che la filiera inglese non riesce a produrre a sufficienza per colmare la domanda interna proveniente delle case costruttrici. Infatti, solo il 41% dei componenti di un veicolo realizzato in Gran Bretagna – una singola auto si compone di 3.000 pezzi – è prodotto in loco, il resto arriva dal continente. Con la decisione, dunque, di uscire dal mercato unico europeo rispunterebbero le barriere doganali che di fatto limiterebbero il flusso di merci sia in entrata che in uscita. La presenza di dazi alla frontiera costituirebbe un aumento della spesa per le imprese che probabilmente finirebbe sulle spalle del consumatore, il quale vedrebbe crescere il prezzo finale del prodotto. L’effetto economico della Brexit in pratica porterebbe nel lungo periodo, secondo il National Institute for economic and social research, a una riduzione degli scambi con la Ue fra il 22 e il 30 per cento. Per evitare questo scenario Downing Street dovrebbe centrare con la Ue un accordo di libero scambio identico a quello attuale. Il che appare difficile. “L’ideale sarebbe un’intesa con regole simili a quelle pre Brexit – continua Barile –. In ogni caso non è immaginabile che le trattative si concludano senza un accordo o con un accordo parziale. Perché significherebbe applicare in pieno le regole del Wto. Per il comparto automotive vorrebbe dire dazi al 10% sulle vetture e al 4,5% sulla componentistica. Ciò renderebbe il Regno Unito un paese non competitivo con effetti negativi anche per la Ue”.
Per il rappresentante di Anfia non è da escludere che per evitare i dazi molte imprese della componentistica possano decidere di investire in Gran Bretagna. “La decisione in questo caso dipenderebbe dalle scelte dei costruttori di auto e da che tipo di garanzie avranno ottenuto dal Governo inglese per non andare altrove” precisa Barile. Se questi ultimi decideranno di rimanere – come appare probabile – è pensabile che anche le imprese che lavorano con loro restino sul territorio. Magari localizzando ancora di più, così da avere una catena di fornitura in sterline. Nell’ipotesi inversa invece la strada dell’addio dal Regno Unito avrebbe come meta i paesi Ue dell’Est Europa. “Siamo nel campo delle ipotesi – continua Barile –. Sbilanciarsi su uno scenario piuttosto che un altro è un azzardo. Tutto dipende dall’accordo di libero scambio che verrà realizzato. Certo due anni di trattative sono un tempo stretto in cui gestire questa fase di transizione. Intanto però alle imprese che sono lì dico di rimanere e di sfruttare i vantaggi dell’essere nel mercato inglese e di avere una fornitura in sterline. Mentre chi pensa di fare degli investimenti di lungo termine e andare a localizzare in Inghilterra prima di farlo deve avere un’intesa vincolante con i costruttori. Ma com’è intuibile in questo caso vorrebbe dire che gli stessi avrebbero già stilato un patto con il Governo inglese per rimanere”.
“In questa fase è difficile prevedere cosa accadrà. Per ora bisogna limitarsi a osservare – spiega Giuseppe Barile, presidente del gruppo componenti di Anfia –. Di certo il mercato non cambierà in maniera repentina l’ammontare complessivo del suo business, ma ciò non toglie che ci saranno degli scossoni e degli aggiustamenti i cui effetti però si avranno a partire dal prossimo ciclo di sviluppo di piattaforme vetture. Pensare che si stoppino degli investimenti già avviati o si rescindano accordi già stipulati mi sembra difficile”. I dati sull’interscambio commerciale del comparto automotive, elaborati da Anfia, descrivono un 2016 in ascesa con un saldo positivo per 643 milioni di euro. A pesare in maniera determinante è stata soprattutto la componentistica, il cui export ha generato 1,35 miliardi di euro di valore. Un risultato che ha portato il settore a chiudere l’anno con il saldo più alto in assoluto – 1 miliardo di euro e un più 9,8% rispetto al 2015 – tra tutti i partner commerciali dell’Italia. Questi numeri fanno del Regno Unito il quarto mercato di destinazione della componentistica italiana che invia Oltremanica: parti e accessori, freni, ruote, ponti con differenziale, assi portanti, sedili, pompe carburante, olio e refrigerante per motori e vetri.
Si tratta di prodotti che la filiera inglese non riesce a produrre a sufficienza per colmare la domanda interna proveniente delle case costruttrici. Infatti, solo il 41% dei componenti di un veicolo realizzato in Gran Bretagna – una singola auto si compone di 3.000 pezzi – è prodotto in loco, il resto arriva dal continente. Con la decisione, dunque, di uscire dal mercato unico europeo rispunterebbero le barriere doganali che di fatto limiterebbero il flusso di merci sia in entrata che in uscita. La presenza di dazi alla frontiera costituirebbe un aumento della spesa per le imprese che probabilmente finirebbe sulle spalle del consumatore, il quale vedrebbe crescere il prezzo finale del prodotto. L’effetto economico della Brexit in pratica porterebbe nel lungo periodo, secondo il National Institute for economic and social research, a una riduzione degli scambi con la Ue fra il 22 e il 30 per cento. Per evitare questo scenario Downing Street dovrebbe centrare con la Ue un accordo di libero scambio identico a quello attuale. Il che appare difficile. “L’ideale sarebbe un’intesa con regole simili a quelle pre Brexit – continua Barile –. In ogni caso non è immaginabile che le trattative si concludano senza un accordo o con un accordo parziale. Perché significherebbe applicare in pieno le regole del Wto. Per il comparto automotive vorrebbe dire dazi al 10% sulle vetture e al 4,5% sulla componentistica. Ciò renderebbe il Regno Unito un paese non competitivo con effetti negativi anche per la Ue”.
Per il rappresentante di Anfia non è da escludere che per evitare i dazi molte imprese della componentistica possano decidere di investire in Gran Bretagna. “La decisione in questo caso dipenderebbe dalle scelte dei costruttori di auto e da che tipo di garanzie avranno ottenuto dal Governo inglese per non andare altrove” precisa Barile. Se questi ultimi decideranno di rimanere – come appare probabile – è pensabile che anche le imprese che lavorano con loro restino sul territorio. Magari localizzando ancora di più, così da avere una catena di fornitura in sterline. Nell’ipotesi inversa invece la strada dell’addio dal Regno Unito avrebbe come meta i paesi Ue dell’Est Europa. “Siamo nel campo delle ipotesi – continua Barile –. Sbilanciarsi su uno scenario piuttosto che un altro è un azzardo. Tutto dipende dall’accordo di libero scambio che verrà realizzato. Certo due anni di trattative sono un tempo stretto in cui gestire questa fase di transizione. Intanto però alle imprese che sono lì dico di rimanere e di sfruttare i vantaggi dell’essere nel mercato inglese e di avere una fornitura in sterline. Mentre chi pensa di fare degli investimenti di lungo termine e andare a localizzare in Inghilterra prima di farlo deve avere un’intesa vincolante con i costruttori. Ma com’è intuibile in questo caso vorrebbe dire che gli stessi avrebbero già stilato un patto con il Governo inglese per rimanere”.